L’ETICA del nuovo sistema filosofico. Il Bene e il male.

“Il concetto di bene e di male sono innati nella mente dell’uomo? Marc D. Hauser professore di Psicologia, Biologia Evolutiva e Antropologia Biologica alla Harvard University, è convinto che sia così; e nella sua conferenza di domenica 28 ottobre 2007, in occasione del Festival della Scienza (http://genova.mentelocale.it/19135-fesitval-della-scienza-mark-hauser/), ha iniziato con una premessa: «la mia indagine è concentrata sulla facoltà morale, ovvero sulla formulazione di un giudizio su un comportamento e non sull’azione che ne consegue. Gli approcci alla questione prevedono un dominio delle emozioni in questo campo, come sosteneva Hume, un approccio totalmente razionale, previsto da Kant, oppure una sintesi dei due. In ogni caso la formulazione del giudizio seguirebbe al ragionamento o all’emozione». L’ipotesi di Hauser è diversa, e decisamente rivoluzionaria: «vorrei dimostrare che le regole morali hanno una radice profonda e inconscia, una sorta di “grammatica morale universale” comune a tutti gli uomini. In pratica emozioni e ragionamenti sono successivi alla formulazione del giudizio morale». Per provare questa teoria Hauser ha fatto ricorso a dilemmi artificiali presentati in un “Moral Sense Test”, nel quale si chiede al soggetto intervistato di esprimere un giudizio su una situazione. Il test, concluso da oltre 250.000 individui provenienti da 120 nazioni, è accessibile su Internet (moral.wjh.harvard.edu) ed è analizzato in dettaglio sul più recente libro dello psicologo, “Menti morali” (Il Saggiatore, 2007). «Dai risultati si intuisce che il male come fine è ovviamente percepito peggiore di un male collaterale, e che il danno causato da un’azione o da contatto diretto è peggiore di quello causato da omissione e contatto indiretto. E’ tuttavia sorprendente notare che molte di queste scelte non hanno una spiegazione razionale: effetti e i benefici risultano identici ma la stragrande maggioranza del campione risponde nello stesso modo, indipendentemente da nazionalità e religione».
Hauser si è chiesto a questo punto se i membri di una cultura primitiva avrebbero risposto allo stesso modo ai suoi test, adeguatamente modificati per risultare comprensibili. «Abbiamo condotto il nostro esperimento sugli indiani Kuna a Panama. Il risultato è sorprendentemente simile a quello ottenuto dai test su Internet. Anche per i Kuna la differenza tra azione diretta ed effetto collaterale è evidente, anche se in misura minore rispetto a noi. A questo punto abbiamo proposto il test a pazienti con lesioni al lobo frontale del cervello, che presiede alle emozioni. Anche questi rispondono in modo molto simile a quelli sani». Hauser arriva alle conclusioni: «la capacità del cervello di formulare giudizi su bene e male è quindi inconscia e indipendente dalle emozioni. Ne risulta che queste ultime e la ragione influiscono certamente sul comportamento, ma non sulla formulazione del giudizio morale. Molte azioni di carattere politico e legale, che fanno parte del background culturale di un paese, non hanno quindi effetto sul nostro concetto di bene e di male, che è lo stesso per tutti».”

Una spiegazione teorico-scientifica di quanto espresso da Hauser, era già stata pubblicata da Riccardo Calantropio.
La natura biologica, nella sua evoluzione, mette in atto delle sperimentazioni, in primo luogo per meglio perpetuare la specie, adattandosi all’ambente, e in secondo luogo per meglio autoconservare il singolo organismo.
Per Riccardo Calantropio, se applichiamo questi concetti elementari all’umanità, possiamo dedurre cos’è il MALE e cos’è il BENE per l’intera umanità, indipendentemente dalle problematiche morali e religiose. E detta così, la cosa sembrerebbe molto semplice; ma allora perché quasi nessuno ci era arrivato prima? Probabilmente perché non erano sufficientemente chiari i veri meccanismi biologici. Nei POST iniziali di questo BLOG, abbiamo visto che le EMOZIONI e i SENTIMENTI (paura, amicizia, amore, etc.) sono degli strumenti sperimentati e selezionati dall’evoluzione per meglio rispondere all’ambiente, alle interazioni tra gruppi familiari, alle interazioni tra individui dello stessa comunità ed alle interazioni tra eventuali nemici della comunità. Tutte le emozioni e i sentimenti hanno, quindi, il FINE ULTIMO di perpetuare meglio la specie e di provvedere al miglior equilibrio psicofisico dell’individuo.

“Richard Dawkins (http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Dawkins), nella sua opera più nota, Il gene egoista, pur mantenendo un impianto complessivo evoluzionista, identifica nel gene, anziché nella specie, il soggetto principale della selezione naturale che conduce il processo evolutivo. Dawkins, infatti, afferma che: “L’unità fondamentale della selezione, e quindi dell’egoismo, non è né la specie né il gruppo e neppure, in senso stretto l’individuo, ma il gene, l’unità dell’ereditarietà.”, aggiungendo, inoltre, che studiosi e scienziati a lui precedenti hanno sbagliato tutto perché sono partiti dal presupposto che la cosa più importante dell’evoluzione fosse il bene della specie(o del gruppo) invece che il bene dell’individuo (o del gene). A questa legge generale sembra opporsi l’evoluzione degli Insetti sociali (Termiti, vespe, api e formiche). Qui sembra che ci sia una “sfida” al concetto di selezione naturale, determinato dall’ambiente, per cui individui con caratteristiche diverse hanno un diverso successo riproduttivo. Gli insetti sociali mostrano una caratteristica che, a prima vista, sembra incompatibile con la visione di Dawkins. Infatti, le femmine delle api sono predisposte a “rinunciare” alla riproduzione se si sviluppano in celle normali e sono esposte al feromone della regina. Tale caratteristica ereditaria porta, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un successo riproduttivo nullo. Sappiamo inoltre che gli insetti sociali discendono da specie solitarie, in cui ogni individuo sviluppa la capacità riproduttiva. Lo sviluppo di tali comportamenti sociali rispecchia un caso particolarmente eclatante di altruismo, ossia di comportamenti che riducono il successo riproduttivo di chi li mette in atto, a vantaggio di consanguinei. Molti naturalisti cercano di spiegare questa apparente contraddizione, facendo dei ragionamenti per cui la rinuncia a prolificare, per permettere ad uno stretto consanguineo di avere molti discendenti, è una “strategia” premiata dalla selezione naturale se la quantità di propri geni che un individuo trasmette “indirettamente” è maggiore di quella che trasmetterebbe riproducendosi da sé. Nel caso delle api, la regina che si riproduce è madre o sorella delle operaie che la aiutano, e produce molti più discendenti di quanti potrebbe produrne un’ape solitaria. Sotto un certo aspetto, dobbiamo anche considerare che gli insetti sociali si comportano come tante cellule, facenti parte di un unico organo (la collettività) e il bene comune della comunità viene anteposto a quello dell’individuo. E a tal proposito, negli ultimi anni è venuto alla luce un meccanismo che potrebbe spiegare in un modo del tutto imprevisto l’origine delle diverse aggregazioni sociali di individui sperimentate dall’evoluzione biologica. Secondo Jean Claude Ameisen (http://lasculptureduvivant.free.fr/ilsole24ore.html) si tratta dalla possibilità di scatenare la morte prima del tempo nelle entità biologiche che si organizzano in società, che si tratti di colonie batteriche, o di insetti sociali o animali multicellulari. La tesi di Ameisen è che l’apoptosi o morte cellulare programmata, vale a dire la morte “prima del tempo”, sia la chiave per spiegare l’evoluzione e la storia individuale delle strutture multicellulari differenziate e complesse, come sono i corpi animali, nonché di alcune forme di organizzazione sociale di particolare successo, come le popolazioni di microrganismi o le società degli insetti. Mentre le cellule che muoiono per necrosi nel corso delle reazioni infiammatorie esplodono, nell’apoptosi la membrana cellulare non si rompe e si osserva una sorta di collasso e frammentazione direttamente all’interno della cellula. Da diversi decenni si sapeva che la morte delle cellule nel corso dello sviluppo serve a scolpire la forma del corpo, per esempio quando si devono separare le dita della mano. Nella seconda metà degli anni Ottanta si è quindi dimostrato che la morte cellulare viene utilizzata per selezionare le popolazioni di linfociti che sovrintendono al controllo del sé immunologico e per strutturare le reti nervose che incorporano il sé psichico. La scoperta che questa morte è programmata e controllata da geni e proteine particolari attraverso un meccanismo che sopprime l’azione di specifici esecutori del suicidio, normalmente presenti nelle cellule, ha portato alla conclusione che le cellule hanno bisogno di segnali dal contesto sociale in cui si trovano per non suicidarsi. Si è poi visto che l’acquisizione dell’incapacità di suicidarsi da parte delle cellule è uno dei passaggi cruciali nella progressione delle cellule tumorali verso la malignità fatale, ma anche dell’insorgenza delle malattie autoimmuno. Per contro, il suicidio cellulare attivato in modo sbagliato può causare il Parkinson o l’Alzheimer. L’egoismo genetico sembra così avere la massima esaltazione nel TUMORE (o neoplasia), neoformazione di tessuto costituito da cellule atipiche modificate rispetto alle normali. La malattia tumorale si sviluppa per clonalità, per mancanza di differenziazione cellulare e svincolata dai meccanismi di regolazione che operano nell’organismo normale.

Dawkins, quindi, non aveva tenuto conto del fatto che la natura aveva prima creato organismi unicellulari, per poi sperimentare organismi pluricellulari che meglio rispondevano alle caratteristiche di sopravvivenza. Un organismo pluricellulare è in effetti una comunità di singole cellule che concorrono al loro bene comune. Così, all’EGOISMO del gene si affianca l’ALTRUISMO tra cellule appartenenti allo stesso organismo.
Il passo successivo della NATURA, abbastanza sottovalutato, è stato quello di SPERIMENTARE gli insetti sociali (api, formiche e termiti), che hanno avuto un grandissimo successo, tanto che le formiche, che esistono da centinaia di milioni di anni, rappresentano oggi il 10% delle biomasse animali e il 50% delle biomasse degli insetti (http://it.wikipedia.org/wiki/Formicidae).

Del resto una conferma indiretta l’abbiamo anche dall’antropologo Robert Sussman (della Washington University) che ha presentato, nel 2006, la teoria sviluppata nel suo libro “Man the Hunted: Primates, Predators, and Human Evolution” (http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/scienza_news/news/scienza_news_1113.htm). Secondo Sussman, contrariamente alla tesi corrente che considera la capacità di combattere e di aggredire con violenza come un carattere originario degli ominidi, i nostri antenati hanno vissuto un lungo periodo come prede, sviluppando solo in seguito la capacità di associarsi per difendersi dai predatori, e successivamente le attuali capacità aggressive. In particolare l’Australopithecus afarensis, un ominide alto 1.2 metri, non disponeva di armi, non conosceva il fuoco e non aveva una dentatura adatta a nutrirsi di carne; per milioni di anni fu cacciato da numerosi predatori, tra cui un canide della taglia di un orso, tigri dai denti a sciabola, iene e coccodrilli. Circa il 5% dei suoi fossili presentano segni che mostrano come fosse stato ucciso da predatori; attualmente, si osserva che i grandi predatori uccidono all’incirca la stessa percentuale di individui delle specie predate, come scimpanzè e gorilla. Anche gli umani, d’altronde, sono tuttora preda di specie come coccodrilli, tigri, orsi e coguari. Sussman conclude che il nostro antenato fu costretto ad associarsi in gruppi per potersi difendere, come fanno ancora oggi tutti i primati attivi durante il giorno e soggetti ai predatori. Da qui sarebbe nata l’attuale capacità di vivere in società e cooperare pacificamente.

In molte religioni, tra cui il cristianesimo si predica la socialità, ovvero la carità verso il prossimo, che si traduce in aiuto verso chi ne ha bisogno, secondo le possibilità di ciascuno.
Tutto quanto sopra esposto ci porta a pensare che nel genere umano vi sia uno scontro genetico di due diversi tipi di evoluzione, una egoistico-individuale e l’altra sociale (come già realizzata negli insetti sociali) e questo scontro equivale alla lotta genetica del MALE e del BENE, ognuno dei quali influenza i nostri inconsci, provocando uno scontro dagli esiti aleatori (e che è stato ben rappresentato nell’apocalisse di San Giovanni). Il male è quindi l’egoismo della riproduzione dei propri geni individuali (che nel tumore o cancro, raggiunge la sua pienezza, contaminando le altre cellule e distruggendo l’organo di cui fanno parte); mentre il BENE è il bene della comunità umana, di cui il volontariato e le autentiche e disinteressate missioni religiose sono un esempio di altruismo (San Francesco, Madre Teresa di Calcutta, etc.). Altrimenti come spiegare geneticamente queste forme di indubbio altruismo?

E così, tornando a Marc Hauser, constatiamo che ormai, a livello genetico-inconscio, nell’uomo è innato il senso del male e del bene. “E’ bene tutto quello che rispetta gli altri esseri umani (tanto che si è elaborata ed è abbastanza condivisa la dichiarazione dei diritti universali delle Nazioni Unite) e in secondo luogo tutto quello, che rispettando gli altri, contribuisce al benessere psicofisico dell’individuo, tenendo conto anche della salvaguardia dell’ambiente e degli ecosistemi della natura in cui viviamo.” Viceversa il MALE è l’egoismo individuale e di gruppo quando va contro i diritti e il benessere degli altri uomini.
E’ interessante constatare che tutto questo coincide al 100% con l’autentico messaggio evangelico Cristiano, in cui il comandamento più grande è “AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO, O MEGLIO AGISCI CON CARITA’ VERSO CHI NE HA BISOGNO”. Si deve quindi essere altruisti, e nel contempo amare se stessi (ovvero salvaguardare il proprio equilibrio psicofisico). Ogni mortificazione di se stessi, che non porti bene agli altri, è quindi contro NATURA e contro il messaggio evangelico (E mi riferisco alla notizia dell’autofustigazione di Papa Giovanni Paolo II)..

In natura e in un organismo, il MALE ASSOLUTO è il TUMORE, ovvero delle cellule che impazziscono e distruggono le altre cellule dello stesso organismo, che porterà irrimediabilmente alla morte di tutto l’organismo e delle cellule tumorali stesse. Nell’umanità il male assoluto è quello che porta alla distruzione dell’altruismo sociale universale, e il NAZISMO lo può ben rappresentare. Dal punto di vista filosofico-psicologico il NAZISMO si basò sulla falsa convinzione che la razza ariana fosse decisamente diversa dalle altre razze per cui doveva essere preservata e aveva il diritto di sottomettere ed annientare le altre razze, come in effetti fanno le colonie di formiche verso le altre colonie di formiche.
In un essere umano coesistono spinte egoistiche e spinte altruistiche, che poi il libero arbitrio fa prevalere a volte alcune ed a volte altre, secondo la risultanza di molti fattori fisici e psicologici. Se ammettiamo l’esistenza di una rete degli inconsci, come teorizzata dalla mia scuola di pensiero, singole spinte inconsce dello stesso tipo (egoistico o altruistico) nella rete possono aggregarsi ed influenzare gli inconsci e le coscienze di singoli, di gruppi o di grandi collettività di uomini (come se esistessero, nella realtà, i metafisici angeli e demoni, che, secondo alcune religioni, influenzerebbero l’umanità). Il Nazismo potrebbe essere, sotto questa visione, un esempio di una popolazione sotto l’influenza inconscia del male egoistico.
Sta a noi e alla nostra consapevolezza indirizzare l’evoluzione umana in senso sociale o strettamente egoistico (di cui il Nazismo è forse un esempio eclatante). Il comandamento di Cristo, già presente nel Levitico, in cui aveva il significato di “AGIRE CON CARITA’ VERSO IL PROSSIMO”, con l’educazione all’altruismo e all’evoluzione in senso sociale può tendere veramente a “far amare i propri simili”, senza nessuna implicazione metafisica, ma prettamente genetica, ma, e qui sta la vera INNOVAZIONE (o il vero messaggio evangelico), tutti gli uomini, in quanto facenti parte dell’unica specie umana (senza altre distinzioni di razza o di comunità, e che non esiste un “popolo eletto”).

A conferma di quanto sopra esposto, riporto anche un articolo pubblicato il 17 Dicembre 2007 su Repubblica, su una ricerca del Dipartimento di Psicologia della Hebrew University di Gerusalemme (http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/scienza_e_tecnologia/generosita/generosita/generosita.html e http://www.israele.net/sezione,,1930.htm), secondo cui, la generosità avrebbe una matrice genetica. Il gene si chiama “AVPR1a”: in alcuni sarebbe più sviluppato rispetto ad altri, rendendo quindi i primi più altruisti dei secondi. Ariel Knafo, a capo dell’equipe di ricerca, ha spiegato sulla rivista specializzata Genes, Brain and Behavior come le persone portatrici di una precisa variante del gene “della generosità” abbiano una maggiore predisposizione a donare i propri soldi agli altri. Il gene in questione è già noto come regolatore della produzione dell’ormone “arginina vasopressina” che agisce sulle cellule cerebrali e regola il meccanismo dei legami sociali. Dalle analisi condotte nei laboratori israeliani è emerso che in certi individui una parte specifica del gene, detta “promotore”, risultava più lunga: più lungo è il promotore, più attivo è il gene in questione. Una scoperta sensazionale, a detta degli studiosi, perché si è sempre creduto che la generosità dipendesse dal contesto in cui si vive, dal benessere di cui si gode e da fattori culturali. “Questa è la prima prova di una relazione tra altruismo e Dna – ha detto Knafo al quotidiano britannico Daily Telegraph – ma ancora non sappiamo perché certe persone hanno il gene e altre no, né quante persone ce l’abbiano effettivamente”. Secondo la ricerca, i ragazzi con il gene della generosità più sviluppato sarebbero anche quelli con solidi valori, pronti a battersi per la pace nel mondo, la giustizia sociale e la salvaguardia dell’ambiente. Ancor più recentemente è stato verificato che un ormone (OSSITICINA) rende le persone più altruiste e disposte ad amare.

Una prova che, dal punto di vista dell’altruismo sociale, l’umanità è in una fase evolutiva.

E concludo con la sintesi di un libro “Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro” di Cacioppo John T., Patrick William (http://www.hoepli.it/libro/solitudine—l-essere-umano-e-il-bisogno-dell-altro/9788842815464.asp)

“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. È un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all’essere sociale. Perché Homo sapiens si è evoluto come specie superiore? John T. Cacioppo trova la soluzione nel “terzo adattamento”: i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni. In Solitudine, neuroscienze, genetica e psicologia evoluzionistica convergono, proponendo al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di una delle più diffuse malattie del nostro tempo. Dopo aver letto questo libro nessuno vorrà essere solo. E non lo sarà.”

AGGIORNAMENTO DEL 14 Dicembre 2010

da un articolo su LE SCIENZE:
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/articolo/1345916

Biologia e politica
Uno sguardo separa liberal e conservatori

I risultati di una ricerca suggerirebbero che anche fattori biologici possano influenzare l’inclinazione politica di fondo delle persone La tendenza a dirigere o meno l’attenzione in una direzione coerente con i movimenti degli occhi di un’altra persona, anche se ciò è irrilevante rispetto all’impegno del momento, fornisce indicazioni sull’inclinazione politica di fondo della persona. A sostenerlo è una ricerca condotta d psicologi dell’Università del Nebraska a Lincoln, che ne parlano in un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Attention, Perception & Psychophysics.

In particolare, i liberal rispondono fortemente allo stimolo, spostando la propria attenzione nella direzione suggerita dal viso di chi hanno di fronte, cosa che invece i conservatori non fanno. (Si tenga presente che i concetti di progressista, o liberal, e conservatore presenti nella cultura statunitense si discostano alquanto da quelli correnti in Italia e in Europa: in generale, è considerato liberal che assume come idea guida prevalente nelle proprie scelte politiche il “principio di uguaglianza”, e conservatore chi ha come stella polare il “principio di libertà”.)

Secondo i ricercatori la ragione potrebbe essere cercata nel fatto che i valori dei conservatori esaltano l’idea di autonomia personale, una circostanza che può renderli meno propensi a essere influenzati dagli altri, e quindi a rispondere in misura minore a quello stimolo visivo. I liberal risponderebbero invece maggiormente allo stimolo perché tenderebbero a essere più reattivi agli altri.

“Pensiamo che l’inclinazione politica possa moderare l’entità dell’effetto stimolo-risposta, anche se non ci si può aspettare che i conservatori ne siano del tutto immuni”, ha osservato Michael Dodd, primo firmatario dell’articolo.

“Lo studio fornisce sostanzialmente un dato in più sul modo in cui liberal e conservatori percepiscono il mondo e sul fatto che elaborino le informazioni in modo differente”, ha detto Kevin Smith, coautore dello studio.

I politologi sono soliti dar conto delle differenze politiche in termini esclusivamente di forze ambientali ma, secondo i ricercatori, questi risultati suggeriscono che anche fattori biologici possano influenzare l’inclinazione politica di fondo delle persone.

“L’attività politica dipende tipicamente dal trovare una base comune a punti di vista in competizione. La nostra ricerca suggerisce che la cosa potrebbe essere più ardua di quanto non sembri, dato che una stessa parte di quella base può apparire molti differente a seconda dello sfondo ideologico da cui la si guarda”, ha commentato Smith. (gg)

ANCHE QUESTA DIFFERENZA POTREBBE AVERE UNA MOTIVAZIONE BIOLOGICA al pari del gene AVPR1A

RIFLESSIONI FILOSOFICHE TEOLOGICHE

E’ molto probabile che questa evoluzione umana, in senso etico, non sia casuale, ma implicita nell’evoluzione dell’universo. In altre parole, ogni volta che si sviluppa in un pianeta dell’universo una forma di vita intelligente, dotata di ragione, astrazione e libero arbitrio, si riproduce un meccanismo simile (vedi anche la parte finale del POST: http://apiuvoci.wordpress.com/2010/10/19/2/). Da qui, questo concetto di BENE e di MALE è come se fosse un concetto implicito nella creazione, e quindi praticamente divino. IL TUTTO, OVVIAMENTE, IN RELAZIONE ALLA COMUNITA’ A CUI SI SENTE DI APPARTENERE, altrimenti vale lo stesso discorso per gli insetti sociali (insetti appartenenti alla stessa specie, ma a comunità diverse, anche se strettamente imparentate, sono spietate tra di loro). 

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 Note esplicative aggiuntive:

1) La tendenza evolutiva dell’umanità, simile a quella degli insetti sociali da me ipotizzata, con altissime probabilità, rimarrà solo una tendenza che non si concretizzerà mai completamente, anche perché noi abbiamo anche una coscienza individuale e una razionalità.
2) La tendenza evolutiva a partire dagli australopitechi (ominidi individuali) sta continuando lentamente perché l’uomo si rende conto dei vantaggi di far parte di una comunità e più ci avviciniamo al pericolo di un disastro planetario (o per una guerra termonucleare o per la distruzione dell’ambiente) questa tendenza è, e sarà, in aumento. Questo non significa che sia stata sempre in costante aumento, ma a secondo delle situazioni delle comunità di riferimento ci sono stati o ci potranno essere dei periodi di aumento dell’altruismo sociale e dei periodi di aumento dell’egoismo individuale (per le stesse motivazioni dei Mundugumor e degli Arapesh, senza che NECESSARIAMENTE dobbiamo aver ereditato i loro geni: il gene probabilmente è sempre l’AVRP1a (con il concorso di altri geni similari) che si evolve o regredisce nella lunghezza del “promotore” che poi determina la quantità di altruismo genetico che fa da base (ovviamente, poi, questo altruismo o egoismo di base viene rettificato dall’ambiente e dalla cultura in cui si vive). Questo perché non si tratta di avere gli occhi blu o neri, ma si tratta nel nostro caso di una serie quasi ’infinità di gradazioni tra l’egoismo e l’altruismo.
3) Non bisogna dimenticare che l’altruismo sociale arriva, in certi casi (al pari dell’APOPTOSI), al sacrificio estremo (vedi Leonida e i 300 spartani, Salvo D’Acquisto, etc.) per cui si supera qualsiasi istinto di sopravvivenza individuale inconscia o razionale, perché ci si sente parte integrale della comunità per la quale si sceglie di sacrificarsi (e questo si può giustificare solo nel senso di una similitudine con gli insetti sociali, delle comunità batteriche o dell’apoptosi cellulare).
4) A questi fattori evidenti, si associa, secondo la mia visione della realtà della RETE DEGLI INCONSCI, il fattore che cresce, anche a livello inconscio, la consapevolezza dell’unicità dell’umanità e della sua interconnessione anche inconscia. Le interazioni tra inconsci stanno facendo, quindi, evolvere più rapidamente l’altruismo sociale.
5) Ricordo che per la stessa visione della RETE degli INCONSCI, queste interazioni (tra cui la semplice telepatia) avvengono più facilmente tra persone legate da affetti emotivi (come i gemelli monozigoti, i coniugi, i fidanzati, i familiari, i parenti, gli appartenenti alla stessa comunità, gli appartenenti agli stessi ideali sociali; ovvero alle comunità a cui ci si sente di appartenere in modo più o meno stretto). I cosiddetti “sensitivi”, invece, riescono ad avere interazioni più multiformi ed ampie.
6) Come in tutti i processi evolutivi, all’altruismo sociale ci si può anche allenare ed abituare; e questo compito è delegato a tutti gli uomini che ne hanno la possibilità per attuarlo per se stessi e per gli altri.

Informazioni su Rete inconsci

Ricercatore del funzionamento della "mente umana" e filosofo evoluzionista
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7 risposte a L’ETICA del nuovo sistema filosofico. Il Bene e il male.

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  5. manzelli ha detto:

    L’ egoismo generato dalla tendenza di appropriazione i beni materiali sia nell’ Uomo che negli animali ivi compresi dli insetti generano aggressivita . Il DNA dall’ Origine delle Specie ha sempre mantenuto la stessa sostanziale composizione fondata su quattro basi di informazione genetica. Pertanto e’ essenzialmente la trascrizione di queste basi della informazione codificata in geni che genera adattamento all’ ambiente in ciascuna specie vivente. Nell’ uomo come essere piu evoluto in particolare il contributo epigenetico alla aggressivita generata dall’ egoismo e’ dominante e quindi e primariamente il cambiamento socio economico a determinare la decrescita ella aggresivita’ e dell’ egoismo umano.
    Paolo Manzelli , LRE@UNIFI.IT

  6. Publicar Articulos ha detto:

    This makes great sense to anyone..

  7. stefano Massaccesi Loreti ha detto:

    Si può dedurre che con l’aumentare dei problemi ambientali che potrebbero portare alla distruzione del pianeta, la coscienza ecologica collettiva si affini e progredisca di pari passo e si spera che in prossimo futuro questo comporti una maggiore cooperazione delle nazioni per conseguire un bene comune in contrapposizione al nostro personale egoismo, che ci porta come singolo individuo a ricercare sempre il meglio per noi stessi senza tener conto del bene degl altri.
    in conclusione probabilmente nei secoli aumentera’ la cooperazione tra gli individui spingendo l’uomo verso il bene collettivo.

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